sabato, febbraio 13, 2010

Altri ritmi (addio per una tromba)

Quando avevo tredici anni suonavo la tromba. Ho cominciato a undici, dopo aver visto per la quattrocentododicesima volta The Commitments e aver capito che forse era il caso di fare qualcosa, di provare a immischiarmi in una passione e trovare un modo per fuggire dalla pessima scuola media.
Ho seguito per due anni le lezioni di un signore che aveva gli occhi da albino cieco e la pazienza di Lao Tse, prendendo il 25 fino a casa sua con la valigetta della tromba sulle ginocchia, alla quale dopo due mesi di inutili spernacchiamenti nel bocchino avevo applicato una foto di Louis Armstrong ritagliata da un numero di "Musica" di Repubblica.
Quando cominciò, dopo mesi di frustranti scale a labbra strette, a crescermi un considerevole calletto sotto il naso, festeggiai mettendo "Il carnevale di Venezia" suonato da Winton Marsalis a tutto volume in salotto e cominciai a girare su me stessa, gli occhi chiusi, al ritmo di quella marcetta di dubbio gusto, ingozzandomi di un pezzo di pane intinto nel sugo di pomodoro freddo e immaginandomi là, in mezzo a un'orchestra multiforme, a suonare.
Mi iscrissi al Conservatorio. Sostenni l'esame di ammissione con addosso la maglietta del Fave club di Elio e quando mi chiesero "prova a farci sentire qualcosa" suonai il tema della Pantera Rosa. Mi fecero cantare un pezzo a mia scelta e chiesero perché, vista la voce che tiravo fuori, non avessi deciso d'iscrivermi a canto, invece. Perché mi piace la tromba, invece.
Mi presero.
Feci un anno di scale, di solfeggio, di alzatacce e voglia di andare a scuola zero nonostante l'ambiente mi piacesse, l'idea di avere tredici anni e studiare in un edificio vecchio, con gli scaloni di marmo, il chiostro affrescato e il pavimento che sembrava di gusci d'uovo.
Sempre con quella custodia in mano, gli spernacchiamenti, la sordina, il maestro che mi ripeteva di non premere sul bocchino, che il suo, di maestro, gli faceva suonare la tromba senza mani, appendendola al soffitto con un filo, perché il tocco dev'essere leggero, mentre io lo sapevo, che Chet Baker alla fine di ogni concerto aveva il bocchino pieno di sangue da tanto premeva.
Feci due degli incontri più importanti della mia vita, uno poi perso, uno ancora vivo, scostante ma presente nel bisogno, come solo le vere amicizie.
Ero felice? Mi vergognavo davanti agli altri, più avanti di me nella teoria, non avevo voglia di alzarmi tutte le mattine alle cinque e mezza per tornare a casa alle otto di sera, come un operaio.
Sempre con la custodia in mano, lo strumento che mi scordavo di praticare eppure amavo, al quale avevo dato un nome, Aretha, che mi tenevo stretto la notte, qualche volta, se avevo fatto un brutto sogno o litigato con i miei.
Accumulavo assenze e sensi di colpa. Andavo alle lezioni di coro, in effetti scoprii che cantare mi veniva molto più facile e mi dava più piacere che suonare, ma non lo ammisi mai, finché non riuscii, non ricordo come, a dare l'esame di terza media, Buono, andare via e cambiare, lasciare perdere, buttarmi nel liceo e in altre aspettative.
Aretha non l'ho quasi più toccata, è rimasta tanto tempo nella sua custodia impolverata dietro la scrivania, nel buco tra il poggiapiedi e il muro.
Mezz'ora fa, appena messi a cuocere i broccoli, Marco mi ha detto che qualcuno è interessato ad averla. La pagherebbe 250 euro più le spese di spedizione.
Io la vendo, ho bisogno di mettere da parte qualche soldo, e poi non la suono più da dieci anni, ormai. Appartiene al mio passato, ai dolori della preadolescenza, a persone morte e persone lontane, a ricordi di altri passi, altri odori di olio per lubrificare i tasti e pelo vecchio, di ottone, al rumore del serbatoio che si apre per sputar via la saliva.
Ora ha bisogno di altri ritmi, di un altro futuro, di una chance di rivalsa per la sua voce da papera costipata.
Chissà se chi la comprerà sarà in grado di sentire il passato che la smalta, al posto del colore dorato il rosso mattone dei muri che mi hanno vista suonarla, al posto dei tasti madreperlati i miei denti bambini che hanno sbattuto contro la sua estremità dura, fredda, che vibrava sotto la mia bocca e le mie perplessità.
Non so se sarà evidente, chissà chi e dove e come e perché la suonerà, la mia Aretha, chissà dove finirà. Certo in un posto migliore, perché io, a parte il silenzio e i ricordi, ora non posso darle proprio nulla.


3 commenti:

Penny Lane ha detto...

Ho vissuto qualcosa di (vagamente) simile con la mia chitarra classica (non me la portavo certo a letto!)...mi piaceva ma non la studiavo che nei 10 minuti prima della lezione e nei 10 minuti dopo la lezione! Naturalmente, i progressi non erano eclatanti...:-/
Ma, suonandola, ho avuto modo di capire che ciò che cercavo veramente era solo di accompagnarmi mentre cantavo. L'essenziale era cantare, quello mi dava gioia. La chitarra era fantastica ma studiare gli arpeggi non era il modo migliore per farmela apprezzare come meritava: mi sarebbe bastato imparare un po' di accordi...

Anni e anni dopo, sto provando a suonare il piano (sempre in modo subordinato al canto). E va bene così, credimi. Anche per Aretha.

Choppa ha detto...

ciao penny, sì, anch'io sono convinta sia giusto così. Anche perché nessuno ancora risponde ai miei curricula, e io l'affitto lo devo pagà. Ecco.
:)
Diciamo che rimarrà sempre nel mio cuore, e che farà la gioia di qualcun altro, almeno per un po'!

Anonimo ha detto...

Great!
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